Avendo citato dall’Iconologia di Cesare Ripa nel post d’ieri, non posso non far menzione – ceterum censeo – della sua unica edizione moderna in Italia, come esempio spaventevole dell’edizione dilettante di un testo classico. Si tratta della „edizione pratica” a cura di Piero Buscaroli, pubblicata nel 1986 dall’editore Fògola, poi nel 1992 da TEA, e ristampata varie volte.
La triste esperienza quotidiana ci insegna che se una qualsivoglia moderna edizione italiana di un’opera classica non dichiara esplicitamente di essere una „edizione integrale”, allora dobbiamo prepararci alle più svariate manovre procustiane, dall’omissione di un bel numero di paragrafi fino all’eliminazione di interi capitoli, o alla loro sostituzione con riassunti sintetici difficilmente discernibili dal testo originale.
L’edizione di Buscaroli, invece di „integrale”, si definisce „pratica”, rivelando nella prefazione il significato di questa finora sconosciuta categoria filologica:
„Edizione pratica” ... significa che il testo è stato scorciato, ove occorresse, ma non riassunto, né modificato. La grafia è trascritta con tutte le incoerenze ... Solo evidenti refusi sono stati corretti.
E moltissimi altri evidenti refusi aggiunti, possiamo soggiungere noi, per esempio quando invece di „varie scientie che in una dotta Accademia si trattano” scrive „donna Accademia”, o quando trascrive il motto „DETRAHIT ATQUE POLIT” come „DETRANIT...”
Però il vizio più fondamentale di questa edizione non è tanto la trascrizione fatta con massima superficialità e con minima perizia filologica, quanto la stessa concezione procustiana, che con il coraggio del sonnambulo mutila e taglia e omette e contrae le entrate originali dell’Iconologia, senza indicare in qualsiasi maniera i punti d’intervenzione nel tessuto del testo originale. Anzi, la tipografia anticheggiante maschera in modo insinuante le traccie delle numerosissime omissioni e contrazioni. Sarebbe questo l’essenza dell’attributo „pratica”?
Tanto è vero che dal punto di vista editoriale questa strategia risultò molto pratica. L’edizione di Buscaroli è citata nelle varie bibliografie come „edizione di riferimento corrente” dell’Iconologia, e le sue copie – ormai nell’ennesima ristampa – torreggiano in ogni grande libreria dell’Italia. Questa versione, con le sue entrate tarpate e con i suoi refusi pullulanti, ormai sostituerà per almeno una generazione di giovani umanisti il testo originale e completo di Ripa.
La copertina della quinta edizione della versione „pratica” dell’Iconologia. La pagina dell’editore la divulga con queste parole:
„Il trattato (1593) che è all’origine della tradizione degli studi iconologici. Un prodigioso repertorio di allegorie. Con le incisioni originali tratte dai disegni del Cavalier d’Arpino.”
Tuttavia, il testo pubblicato (e mutilato) qui non è dell’edizione del 1593, ma di quella (molto differente) del 1618 (come esplicitamente dichiarato nella prefazione). Inoltre, le incisioni originali sicuramente non sono tratte dai disegni del Cavalier d’Arpino, perché anche le incisioni sono prestite dall’edizione del 1618, mentre i disegni del Cavalier d’Arpino erano i modelli (presuntivi) per le ben differenti illustrazioni dell’edizione del 1603. E il punto d’origine degli studi iconologici non era l’Iconologia, ma il Studies in Iconology (1939) di Erwin Panofsky, che dall’Iconologia non ha tratto che il titolo.
Tanto per l’esattezza filologica.
La triste esperienza quotidiana ci insegna che se una qualsivoglia moderna edizione italiana di un’opera classica non dichiara esplicitamente di essere una „edizione integrale”, allora dobbiamo prepararci alle più svariate manovre procustiane, dall’omissione di un bel numero di paragrafi fino all’eliminazione di interi capitoli, o alla loro sostituzione con riassunti sintetici difficilmente discernibili dal testo originale.
L’edizione di Buscaroli, invece di „integrale”, si definisce „pratica”, rivelando nella prefazione il significato di questa finora sconosciuta categoria filologica:
„Edizione pratica” ... significa che il testo è stato scorciato, ove occorresse, ma non riassunto, né modificato. La grafia è trascritta con tutte le incoerenze ... Solo evidenti refusi sono stati corretti.
E moltissimi altri evidenti refusi aggiunti, possiamo soggiungere noi, per esempio quando invece di „varie scientie che in una dotta Accademia si trattano” scrive „donna Accademia”, o quando trascrive il motto „DETRAHIT ATQUE POLIT” come „DETRANIT...”
Però il vizio più fondamentale di questa edizione non è tanto la trascrizione fatta con massima superficialità e con minima perizia filologica, quanto la stessa concezione procustiana, che con il coraggio del sonnambulo mutila e taglia e omette e contrae le entrate originali dell’Iconologia, senza indicare in qualsiasi maniera i punti d’intervenzione nel tessuto del testo originale. Anzi, la tipografia anticheggiante maschera in modo insinuante le traccie delle numerosissime omissioni e contrazioni. Sarebbe questo l’essenza dell’attributo „pratica”?
Tanto è vero che dal punto di vista editoriale questa strategia risultò molto pratica. L’edizione di Buscaroli è citata nelle varie bibliografie come „edizione di riferimento corrente” dell’Iconologia, e le sue copie – ormai nell’ennesima ristampa – torreggiano in ogni grande libreria dell’Italia. Questa versione, con le sue entrate tarpate e con i suoi refusi pullulanti, ormai sostituerà per almeno una generazione di giovani umanisti il testo originale e completo di Ripa.
La copertina della quinta edizione della versione „pratica” dell’Iconologia. La pagina dell’editore la divulga con queste parole:
„Il trattato (1593) che è all’origine della tradizione degli studi iconologici. Un prodigioso repertorio di allegorie. Con le incisioni originali tratte dai disegni del Cavalier d’Arpino.”
Tuttavia, il testo pubblicato (e mutilato) qui non è dell’edizione del 1593, ma di quella (molto differente) del 1618 (come esplicitamente dichiarato nella prefazione). Inoltre, le incisioni originali sicuramente non sono tratte dai disegni del Cavalier d’Arpino, perché anche le incisioni sono prestite dall’edizione del 1618, mentre i disegni del Cavalier d’Arpino erano i modelli (presuntivi) per le ben differenti illustrazioni dell’edizione del 1603. E il punto d’origine degli studi iconologici non era l’Iconologia, ma il Studies in Iconology (1939) di Erwin Panofsky, che dall’Iconologia non ha tratto che il titolo.
Tanto per l’esattezza filologica.
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